Onde, opera di Maria Elena Didonna (Aisha ColorsAndEssence) per i Dialoghi esteriori di Gabriella Ottini
Onde, opera di Maria Elena Didonna (Aisha ColorsAndEssence)

Stamattina hai bevuto soltanto un caffè, un semplice espresso, non il solito caffè doppio che ti concedi dopo i turni di notte. Oggi devi essere lucida ma calma, e soprattutto rassicurante. Sai perfettamente che le persone spaventate interpretano male anche il più piccolo movimento dei tuoi muscoli facciali.

Perdi tempo davanti all’armadio: negli ultimi tre giorni non hai fatto altro che chiederti quale può essere l’abbigliamento più adatto per un’occasione del genere, qual è l’immagine di te stessa che vuoi trasmettere. Professionale? Sicuramente. Umile? Non proprio. Femminile? Oddio. La femminilità per te è un concetto indefinito che non si esprime in un modo preciso e che sul lavoro è quasi un problema. Le tue colleghe femminili spesso non vengono prese sul serio.

La tua migliore amica ti ha scongiurato di andare dal parrucchiere e tu lo hai fatto. Altrimenti rischi di sembrare una ragazzina, ti ha detto. Le vuoi bene, la ascolti, lasci che si comporti come una sorella maggiore perché questo gioco di ruoli vi fa ridere e vi unisce. Adesso hai i capelli in ordine, da vera professionista. I boccoli fluttuano come onde calme sulle tue spalle, ma non sai cosa indossare. Mandi qualche foto alla tua amica e le chiedi aiuto, non ti senti a tuo agio con niente. Non è l’abito il problema, il problema è l’ansia di essere all’altezza, e glielo dici. Lei si scusa, non doveva insistere con la storia del parrucchiere. Sei la migliore, anche con i capelli arruffati e i jeans. Metti qualcosa che ti fa stare bene.
Rincuorata dalle sue parole ti guardi allo specchio e mandi al diavolo le paure. Sei stata scelta per la tua bravura, è questo che conta. Pantaloni neri, una maglietta semplice e scarpe comode, una combinazione curata ma neutra. Ami la semplicità, e poi con i tacchi non potresti andare al lavoro a piedi.

Arrivi in ospedale, indossi il camice ed entri nella stanza in cui si terrà l’incontro. Intorno a te solo cravatte di seta e camicie con le iniziali ricamate sul taschino. Il tuo collega anestesista deve avere una nuova compagna, perché in genere non è capace di abbinare neanche i calzini; però è il migliore, gli si perdona tutto, comprese le gaffe con i pazienti.
Anche tu sei la migliore e lo sai, ma chissà perché non riesci a perdonarti neanche il più piccolo sbaglio, hai il terrore di mandare in frantumi il rispetto che ti sei guadagnata lì dentro: a te non rivolgono battutine stupide o volgari, non ti considerano la bambola che non si è accontentata di fare l’infermiera. All’inizio provavi anche un moto di orgoglio quando venivi invitata a prendere il caffè dalla cricca dei più ammirati, tutti uomini. Ma perché il rispetto una donna se lo deve guadagnare?

L’incontro fila liscio, sei preparata e rispondi in modo impeccabile alle domande dei colleghi venuti da un altro ospedale per assistere all’intervento e del professore americano che si trova in Italia per un convegno. La tua partecipazione è preziosa – come il tuo inglese perfetto – e il lavoro di squadra è fondamentale.
Il consulto termina e arriva il momento di parlare con il paziente. Rimani nella stanza insieme al primario e al tuo collega anestesista e pensi che il peggio sia passato: entri naturalmente in empatia con i pazienti, è così da sempre, da quando a scuola eri la prima a consolare le compagne che piangevano per i dispetti dei maschi. Lasciali perdere, dicevi alla vittima, noi siamo più intelligenti. 

Accogli con un sorriso rassicurante le due persone che arrivano, ti senti calma e serena; l’intervento è complesso, ma la squadra che è stata creata per eseguirlo è il frutto di una collaborazione tra le eccellenze dei due più grandi ospedali della zona. Andrà tutto bene.
Il primario fa accomodare il paziente e sua moglie e, dopo un po’ di convenevoli e di autoreferenzialità, inizia con la sintesi del consulto. I suoi paroloni tecnici risuonano tra quelle pareti e tu non riesci a decifrare l’espressione della coppia seduta dall’altro lato del tavolo. Che idiota, pensi, così li spaventa. Hai sempre odiato i medici che salgono sul piedistallo, perché per te l’obiettivo è curare le persone, non ottenere il loro inchino.

Il primario termina il sermone e ti passa la parola con un cenno. Spieghi la parte dell’intervento che ti riguarda, descrivi i benefici e i rischi nel modo più comprensibile che conosci e con termini semplici, cerchi di essere vicina a quell’uomo e a sua moglie. Sei una persona anche tu, non vuoi incutere timore.
Man mano che il tuo discorso prosegue noti qualcosa che non ti aspettavi: a ogni frase il paziente cerca con lo sguardo il volto del primario, come per chiedere conferma delle tue affermazioni; sua moglie invece ti squadra e osserva prima i tuoi capelli e poi la maglietta che spunta dal camice aperto. Con un gesto istintivo avvicini i lembi del camice per nascondere la maglietta e passi una mano tra i capelli per controllare che le onde siano ancora lì, morbide e rassicuranti. Mentre parli di organi, tecniche chirurgiche e terapie post-operatorie ripensi agli abiti lasciati nell’armadio, vedi davanti a te la camicia bianca e le scarpe con il tacco, ti arrabbi con la tua amica perché avrebbe dovuto convincerti a indossare il tailleur. I boccoli non bastano, l’acconciatura è soltanto un dettaglio. Concludi il tuo discorso e non riesci più a sorridere.

Sembra che l’esame sia finito lì, che il tuo orgoglio sia già stato messo alla prova a sufficienza, quando alla domanda del primario se le spiegazioni sono state tutte chiare, il paziente risponde «Sì, tutto chiaro, anche quello che ha detto la signorina». Per un attimo rimani senza fiato, come nell’attesa che il cuore ricominci a battere, poi ti rendi conto che nessuno si disturba a far notare che sei una dottoressa, e iniziano i saluti. «Grazie professore, arrivederci». 

Tutti sanno che anche tu salverai la vita di quella persona, anche tu starai in piedi ore e ore in sala operatoria eppure tutto prosegue, tutto è normale. Senti la rabbia che sale fino al collo e ti sforzi di non arrossire. Vuoi farti sentire, stai per esprimere il tuo sdegno, hai il diritto di dare una lezione al primario e all’anestesista sul rispetto tra colleghi ma all’improvviso ti blocchi. Nella tua testa senti le risate e le battutine sulle donne che vogliono fare il mestiere degli uomini e che non sanno essere sportive; rivedi gli ammiccamenti, le gomitate e gli sguardi che cadono di continuo sul sedere dell’infermiera più giovane; ripensi alla cricca dei più ammirati dell’ospedale, a quando hai avuto l’onore di essere invitata per un caffè grazie alla tua competenza e non per il tuo bel culo. O forse è quello che vorresti credere?

Ti blocchi e non esplodi perché hai paura del giudizio. Vedi già l’etichetta di permalosa dietro la tua schiena. Se una donna si ribella non è forte, è permalosa. Se si fa rispettare non è sicura di sé, è una tiranna.
Devi per forza cercare il pelo nell’uovo? Non ti basta essere stata scelta per un intervento così importante? Il paziente non ti conosce, va bene, ma il primario sì, sarete in due ad aprire il torace di quell’uomo: il professore e la signorina. No, non ti basta, perché se qualcosa dovesse andare storto ne risponderai come ne risponderà lui, da medico.

In America, alcuni anni fa, eri doctor. Hai iniziato la tua gavetta in un ambiente giovane, hai imparato a fare squadra. A casa inviavi le foto dei premi, dei convegni, del camice con il tuo nome. I momenti tristi li tenevi per te, perché temevi di sentirti dire che avresti dovuto fare l’infermiera. Che male c’è ad accontentarsi? Puoi assistere le persone ugualmente, anzi, hai meno responsabilità. Medicina è un percorso troppo lungo, quando finisci di studiare devi sbrigarti a mettere su famiglia.
Stavi bene lì, non dovevi chiedere il permesso per imparare o scusarti per le tue ambizioni, ma non era la tua terra, non potevi curare la tua gente e ti faceva male il cuore se qualcuno veniva rispedito a casa perché non poteva permettersi l’assicurazione sanitaria. Allora sei tornata. Chi era rimasto ti ha dato della matta, mentre tu volevi solo occuparti della salute di chi ne aveva bisogno, senza pensare al suo portafogli.

Entri in sala operatoria e tutto svanisce. Non esistono ruoli, non esiste offesa, solo la vita di un’altra persona e il tuo impegno per proteggerla. Torni a casa. Ti meriti un buon caffè, lo sorseggi mentre osservi le pergamene appese alle pareti e rifletti. Non c’entrano il caffè o il nervosismo, la caffeina non ti ha mai dato problemi. Tu sei così, energica e vivace, sei ambiziosa e sai di poter migliorare. A volte però ti vergogni del tuo modo di essere, perché una signorina va dal parrucchiere, si veste con cura, mette i tacchi e si comporta bene.
Le onde dei capelli iniziano a rompersi sotto il vento impetuoso dei pensieri. Il rumore cresce, vorrebbe emergere dall’acqua e diffondersi nell’aria come un grido di rabbia. Ma una signorina non urla, non si offende, non rimprovera i colleghi uomini, e poi esce e salva le vite insieme ai professori.