Fuso orario, opera di Maria Elena Didonna (Aisha ColorsAndEssence)

Sei quasi arrivata. Cinque ore di autostrada in direzione sud-est ti fanno sentire come se dovessi affrontare il fuso orario di New York, quando l’orologio torna indietro di sei ore e una giornata già vissuta ricomincia daccapo in un altro mondo, mentre tu vorresti solo andare a dormire.

Il Sud della Puglia in questo momento non è casa tua, è l’altro mondo che si avvicina familiare, con il nero dei residui di rifiuti bruciacchiati nelle piazzole di sosta e l’azzurro della primavera che diventa estate. Sposti il parasole, non per la luce, ma per non vedere gli ulivi rinsecchiti che la xylella ha prosciugato con il suo veleno potente. La tua terra sta morendo, i campi sono un cimitero senza fine.

Il tuo fidanzato ti aspetta a casa dei suoi genitori, è partito un giorno prima per incontrare alcuni compagni del liceo, quelli che non sono andati via, quelli che campano con la disoccupazione delle mogli ottenuta grazie a giornate di lavoro agricolo mai svolte, e con la speranza che l’Ilva non chiuda mai i cancelli – pazienza per la cassa integrazione a intermittenza, ma non toglieranno lo stipendio a migliaia di famiglie.

Le villette di campagna con i giardini curati e le inferriate fresche di vernice cedono il posto a case più anonime, alcune imbruttite dai primi piani a rustico mai terminati e divenuti palazzi imperiali per piccioni e gazze ladre. Tutto è fermo a quindici anni fa nella zona centrale del paese, ma c’è un’identità che non tramonta. Dietro le finestre abitano persone vere, puoi immaginare le loro storie – sempre uguali, tutte simili –, legate a un luogo che ha dato loro un’impronta precisa. Quelle storie sono come i mattoni delle mura del castello che domina dall’alto, fortificate per resistere alla società inquinata che esonda dallo schermo dei televisori. Si resiste al cambiamento, si deve resistere.

Parcheggi l’auto e ripensi alla valigia preparata la sera prima, hai portato degli abiti semplici. Malgrado i tuoi sforzi riesci sempre a risultare troppo elegante per un contesto così lontano dallo struscio patinato delle vie dello shopping delle grandi città. Avverti gli occhi che si affacciano dalle case popolari dall’altro lato della strada e ti senti un’aliena, vorresti annunciare che sei venuta in pace, che non hai intenzione di contaminare esseri viventi o di lasciare strani segni sull’asfalto. La missione che devi portare a termine ti ricorda un incarico diplomatico su un altro pianeta.

Pronta? Non c’è tempo per riposare: ti rinfreschi, togli la camicia del tailleur, ti strucchi e cerchi di liberarti dell’aura aziendale che ti avvolge come il profumo costoso che hai vaporizzato qualche ora prima. Un fine settimana serrato, un programma da rispettare per non scontentare nessuno, una borsa grande abbastanza per il pacchetto di partecipazioni già preparate. Manca solo quella di zia Italia, non ricordi il suo cognome, è la prozia del tuo fidanzato.

Parte la delegazione guidata da tuo suocero, lui non può mancare, sua zia è anziana – quanti anni ha? – ma ancora lo riconosce. Il tuo fidanzato, invece, per farsi aprire dovrebbe convincerla che non è un truffatore o un testimone di Geova e sarebbe costretto a srotolare la genealogia fino al trisavolo come prova delle sue buone intenzioni; ha anche perso l’accento originario e non sa più parlare l’arbëreshë, non avrebbe possibilità di farsi aprire la porta. Zia Italia riconosce suo nipote e apre, scambia con lui qualche frase tra il dialetto e l’albanese antico, indica prima la cucina e poi il suo orecchio sinistro, quello che funziona, si scusa e dice che ha quasi finito. Apre la zanzariera che dà su un piccolo giardino, le galline si affollano nel punto in cui cadono i semi che lei getta per aria. La ciotola si svuota, zia Italia torna col suo passo stentato e si siede in cucina.

«Che bravi questi giovani, come sono alti! Da chi hanno preso? Eh sì, hai ragione, solo uno è figlio tuo, l’altra è la sposa, anche lei è alta. L’avevo confusa con la figlia tua piccola, quella che sta fuori. E dove si sposano? A Roma? Dal papa? Ah no? Non fa niente, basta che si sposano. Posso parlare dialetto? Mi capiscono questi giovani? Devi leggere tu il biglietto, io ogni tanto guardo le parole crociate, ma non vedo bene. Grazie, grazie, non posso venire, però zia Italia il dovere suo lo fa, gli inviti vanno onorati».

Osservi la scena con discrezione e un po’ intontita. Sei tornata ragazzina, ricordi come sedevi composta all’angolo del tavolo per non disturbare i grandi che parlavano tra loro e parlavano anche per te, come se tu non ci fossi, come se non potessi comprendere convenevoli, preoccupazioni e menzogne, come se i tuoi pensieri non esistessero. Sei precipitata nel mondo antico che ti lasci alle spalle ogni volta che riparti verso nord, e che dista solo sei ore di macchina dalla tua vita attuale. Hai ancora l’aura aziendale sulle spalle, oggi proprio non riesci a mandarla via perché la mattinata è stata frenetica, non hai avuto il tempo di sentire il percorso e spostare la mente sulla parte di te che è rimasta nei paesini del sud.

«Che cosa fai a Roma?» Zia Italia ha esaurito la conversazione con tuo suocero e rivolge la sua curiosità verso di te. «Studi come la nipotina mia, la Francesca? Non si è ancora diplomata e l’hanno già chiamata in una ditta, al nord, per lavorare con i turisti perché sa le lingue. Tu le sai le lingue?». Sì, le sai le lingue, ma non studi più. Sono passati anni dal diploma, dalla laurea, dal master. Adesso stai sbattendo la testa per fare carriera. Proprio questa mattina sei uscita di corsa dall’ufficio con il pretesto che dovevi metterti subito in viaggio. Avevi già affidato il tailleur per il colloquio a una tua amica, l’hai raggiunta e ti sei cambiata sul pianerottolo fuori dalla sede dell’ente per cui lavora, mentre controllava che non arrivasse nessuno. Il colloquio era lì vicino, così hai sfruttato il suo aiuto, ed era in inglese – il terzo di cinque –, anticipato di tre giorni perché il retail manager responsabile dell’Europa doveva tornare a Parigi per un imprevisto. Sei entrata nella lussuosa boutique dove eri attesa, ti hanno indicato un ufficio al primo piano, la moquette immacolata attutiva il rumore dei tacchi. Ti sei seduta e hai messo in scena le tue competenze di middle manager che si è formata a Milano in un’altra multinazionale. Mentre il ricordo della mattinata si ripropone nella tua mente, cerchi una risposta alla domanda di zia Italia. Una domanda semplice, in teoria.

Delle galline non c’è più traccia, si sono rintanate nelle loro casette. Immagini quei volatili impertinenti mentre beccano chicchi d’orzo sulla moquette della boutique in centro a Roma, e sorridi, perché quell’idea rende tutto più umano, incluso il lavoro che ancora non sai se sarà tuo.

Prima di salutarti zia Italia tira fuori due caramelle dalla tasca del grembiule, sono per gli sposi. Percepisci l’incontro tra due mondi, così diversi, che ogni tanto lottano dentro di te, soprattutto quando ti chiedi a quale appartieni davvero.

La città con le sue ambizioni all’improvviso svanisce. In fondo alla strada due bambine giocano a campana, hanno coperto l’asfalto di disegni tracciati con i gessetti colorati. Stringi la caramella nella mano sinistra e segui la delegazione fino al prossimo parente. Forse ti sbagli, ti stai abituando al fuso orario, e domani sarà un’altra giornata da vivere due volte, in bilico tra i due mondi che non ti lasciano andare.