Ritorno, opera di Maria Elena Didonna (Aisha ColorsAndEssence)

Perché sei tornata? Tua madre di certo non se lo chiede, è contenta e basta, mentre nel tuo cervello la domanda si affaccia una media di tre volte al giorno. Ah sì, certo, il Covid-19, la chiusura delle regioni, e il contratto di lavoro non rinnovato. Coincidenze. Nient’altro?

Ti capisco quando dici che eri stanca di vivere in un ascensore. In condivisione, s’intende. Io ho vissuto in un sottoscala per sei mesi, dico sul serio, e l’affitto mensile era molto più alto della rata del mutuo che pago ora per il mio appartamento luminoso alle porte di una grande città del Sud Italia.

Perché sei tornata? Non sai se pentirti o saltare per la gioia. Già, conosco bene le orecchiette al sugo di tua mamma. Lo so che ti sono mancati i pranzi della domenica. Te ne lamenti, sembrano non terminare mai, ma poi ti sorprendi a desiderarli mentre ingurgiti cibi precotti nella minuscola cucina in affitto con vista palazzi alti e grigi.

Hai paura per il tuo futuro. Come darti torto? Eri ormai abituata alla ressa in metropolitana, al biip di benvenuto in ufficio quando strisciavi il cartellino, allo stipendio garantito e regolare, senza sorprese e senza fuori busta, ai colleghi a cui non fregava niente se non eri fidanzata.

La qualità della vita, certo. Però ti angosci quando le tue amiche, quelle che sono rimaste, raccontano dei lavoretti stagionali, dello sfruttamento, del “così è se ti pare”, con l’aria di chi ha lavorato decenni, mentre hanno poco più di trent’anni. Le stesse amiche ti prendono in giro perché hai iniziato a inglobare la cantilena nordica tra le tue vocali chiuse. Così al nord sei del sud, e al sud sei del nord.

Non ti preoccupare, un paio d’anni e, se ti impegni, la tua dizione tornerà immacolata, originaria, anche se in fondo ti dispiacerebbe un po’; ti sei affezionata a quel leggero segno distintivo come a una cicatrice di guerra, una medaglia all’esperienza. Non ti senti più una tra tante, una che si rassegna al nulla. Tu ci hai provato. Hai rinunciato ai pranzi di famiglia, agli autunni tiepidi, alla vita di piazza dei paeselli provinciali, all’eterno fidanzato conosciuto tra i banchi di scuola.

Hai iniziato a comprare la frutta al pezzo, come dall’antiquario, mentre giù gli amici di famiglia regalano ceste traboccanti di ciliegie e albicocche, è un peccato lasciarle marcire sugli alberi. E chi se le ricorda le ciliegie, quelle buone? Che strazio. Perché bisogna sempre rinunciare a qualcosa? Una piccola parte di te ha già iniziato la procedura di spegnimento per non avvertire il senso di vuoto che avanza.

I tuoi ex colleghi promettono che verranno a trovarti e tu vanterai il mare, il sole, la campagna, il buon cibo, i genitori tuoi che sono genitori di tutti non appena si aprono le porte di casa. E di’ a Francesca di venire a pranzo da noi, non lasciarla sola, che problema c’è?

Già, qual è il problema? Che su troveresti facilmente un lavoro e giù non sapresti da dove iniziare e ti vergogni se tuo padre decide di parlare col suo amico che ha fatto fortuna grazie al supermercato del paese. Come glielo spieghi che puntavi a diventare quadro in una multinazionale e che sistemare i biscotti sugli scaffali proprio non fa per te? Con tutto il rispetto, eh!

Tua madre invece tira fuori a piccole dosi la storia dell’impiego statale, qualunque esso sia: se un giorno dovessi avere un marito e dei figli, lavorare nel pubblico ti lascerebbe tempo libero per dedicarti alla casa e alla famiglia, senza considerare lo stipendio fisso. Non puoi sfruttare la tua laurea? Non ne hai idea. Allora esci a prendere un caffè con il tuo amico storico – vi conoscete dal liceo –, che campa di disoccupazione ad anni alterni e ha molto tempo libero, mentre sua moglie lascia i figli a scuola e corre a preparare il pranzo.

Ascolti i suoi racconti e non sai se catalogarli come normalità o rassegnazione, provi dispiacere per la sua compagna stanca e indaffarata, che ha già perso interesse verso il marito dopo neanche cinque anni di matrimonio. Cerchi di convincerti che tu sei diversa, hai qualcosa in più e vorresti gridarlo al mondo, ma il contesto ti rema contro. Il contesto. Lo stesso che ti saluta, che ti chiede come stanno i tuoi genitori, che ti conosce da quando eri piccola e ricorda le tue arrampicate sugli alberi dei giardini pubblici o tuo fratello che serviva messa con i paramenti da chierichetto.

Il contesto, entità sconosciuta e informe, tanto più grande di te e di me, che però ci tiene intrecciate con la stessa trazione misteriosa che dà forma a un cestino di giunchi.
Si tratta delle nostre radici e non riusciamo a tagliarle, i rami sono arrivati molto in alto e da lì i movimenti del sottosuolo sono troppo lontani per poterli controllare.

È in questo luogo, a volte incivile e rozzo, che siamo diventate ciò che siamo.Vorresti renderlo un posto migliore, ma i posti migliori come sono fatti? Possiamo solo immaginarli, per ora. Intanto usciamo a prendere un caffè. Il barista e i suoi clienti affezionati ti conoscono da una vita: la consapevolezza che esisti per gli altri, a volte, ti fa esistere davvero. Forse sei tornata per questo.